Il vino in miniera di Nove Lune

Lavorare in miniera. Un’espressione che abbiamo da sempre utilizzato per indicare un lavoro duro, faticoso, in condizioni insalubri, con la paura del buio e della roccia incombente. Alessandro Sala di Nove Lune ha trasformato ambienti che ci riportano ai periodi più infausti della nostra immigrazione e del lavoro di sopravvivenza in una risorsa preziosa per consentire al suo Metodo Classico di trovare le condizioni ideali di temperatura e umidità direttamente dalle cavità della montagna e incrementarne così la qualità e il carattere. Ha affidato il suo vino al buio, al freddo e al silenzio, nel cuore della miniera Costa Jels di Gorno, in Val del Riso: lo ha fatto sapendo che avrebbe trasformato tutto questo in luce, in perlage, in un corredo, dal punto di vista olfattivo e gustativo, unico e prezioso. E lo ha fatto impiegando esclusivamente vitigni resistenti.

Alessandro Sala

Costa Jels

Alessandro Sala non fa remuage, in realtà accarezza le sue bottiglie come fossero creature da amare: la prima annata è stata la 2019. La cuvée è data da un blend di uve Johanniter, Bronner e Souvignier gris. Nel 2019 la prima annata, con l’obiettivo di prolungare la sosta sur lie per 60 mesi: da allora 1200 bottiglie ogni vendemmia (ad eccezione della 2022), di cui circa 400 proseguono l’affinamento per altri cinque anni, al fine di creare una grande Riserva.

«L’idea di fare tutto questo in miniera è nata dalla Champagne, famosa per utilizzare le antiche cave di gesso di origine romana, le “crayéres”, per i propri champagne», spiega Sala: Ruinart, Taittinger, Veuve Cliquot (solo per citarne alcune) impiegano da secoli le cave di gesso per l’invecchiamento dei loro preziosi nettari. 

A Gorno in Val Seriana, una porzione di galleria, una volta impiegata per l’estrazione dei minerali, è diventata il luogo di affinamento unico e straordinario per il Metodo Classico di Alessandro Sala. Si entra all’imbocco “Serpenti” a quota 830 metri s.l.m.: i cunicoli sono stretti, la roccia sovrasta la dimensione umana, buio e silenzio: richiede coraggio immergersi nel cuore della miniera che, con oltre 230 km di cunicoli, è diventata un vero e proprio labirinto. Prima dell’imbottigliamento il vino per circa un anno e mezzo viene affinato in cantina, in barrique di rovere francese e in acciaio. Dopo le fasi legate alla liqueur de tirage, il vino imbottigliato viene portato nella miniera: le bottiglie, che entrano su quegli stessi carrelli che portavano nel secolo scorso i minerali estratti, riposano ora sui lieviti in cassette da circa 35 kg l’una, con tappo a corona e, una volta completato il periodo di sessanta mesi di affinamento sur lie previsto per il prossimo anno per la prima annata (millesimo 2019), verranno portate in cantina per la sboccatura. Saranno tutte non dosate, perché Alessandro vuole ritrovare e riproporre nel vino la verticalità affilata della roccia e quella vena sapida che ci riporta al gusto minerale. Gli spazi ristretti, la mancanza di collegamento con l’esterno se non nelle poche aperture, la privazione di luce naturale, l’oscurità totale di pozzi e strutture sotterranee e l’isolamento dall’esterno raccontano una storia fatta di lavoro al limite delle condizioni umane, insalubri e pericolose.