
Stefano Buiatti è docente di Tecnologia della Birra presso l’Università di Udine dall’anno accademico 1994/95 ed è responsabile del microbirrificio e della micromalteria sperimentali nello stesso ateneo. Ha lavorato nel laboratorio controllo qualità della Birreria Moretti di Udine prima della sua chiusura. Dal 1997 al 1999 ha svolto attività di ricerca presso il Brewing Research International a Nutfield, in Inghilterra. È responsabile dell’organizzazione del Corso tecnico-gestionale per imprenditori della birra e del Corso per sommelier della birra rivolti a esterni. Dal 1999 lavora come consulente esperto nella valutazione di progetti tecnico scientifici per la Commissione Europea. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche e divulgative e di capitoli di libri relativi al settore della tecnologia del malto e della birra.
Si può dire che tu sia stato un osservatore del panorama birrario nazionale degli ultimi 30 anni. Se dividiamo in decadi questo lasso di tempo riusciresti a identificare per ognuno di essi dei passaggi caratterizzanti?

«In effetti il mio primo anno di insegnamento come docente di Tecnologia della birra fu il 94/95 ed è proprio verso la metà degli anni ‘90 che cominciò a svilupparsi in Italia il fenomeno dei microbirrifici che allora si potevano contare sulle dita di due mani. Da quel momento in poi ci fu una crescita esponenziale, uno tsunami di birra artigianale stava per abbattersi sui sonnecchianti e monotoni lidi della birra industriale. Possiamo senz’altro affermare che l’entusiasmo e la creatività caratterizzarono la prima decade, tuttavia, ciò spesso a scapito della professionalità e competenza; mastri birrai non ci si improvvisa, come molti impararono presto a proprie spese. Nella seconda decade, chi non aveva vissuto gli inizi come un fuoco di paglia ma aveva saputo offrire qualità costruita sulla professionalità e passione, riuscì a gettare le basi per la diffusione e promozione del prodotto artigianale su cui si costruì la fiducia dei consumatori. Una crescita continua che non è passata inosservata nemmeno agli occhi della politica che finalmente legiferò fissando norme sulla definizione di birra artigianale. Termine che risvegliava nel consumatore, e questo vale ancora oggi e non solo per la birra, un atteggiamento positivo essendo un attributo spesso associato all’idea di genuinità, originalità, bontà delle materie prime, assenza di sofisticazioni. Inoltre, fu promulgata la legge sulla birra agricola e finalmente furono rivisti e resi più equi i criteri di applicazione delle accise accogliendo le istanze dei piccoli produttori che chiedevano, a ragione, una ridotta applicazione dell’imposizione fiscale sulla birra artigianale.
Nella terza decade il grande numero dei piccoli produttori ha determinato condizioni di mercato in cui, a causa del calo generalizzato dei beni di consumo, si è assistito al più ovvio dei fenomeni economici, e cioè, quando cala la domanda si amplia l’offerta. Gli scaffali che espongono le birre si sono ampliati così come le spine dei pub si sono allungate. La rincorsa per acchiappare i consumatori e la competitività tra microbirrifici ha portato a prodotti sempre più originali e, a chi ne aveva la competenza, a produrre con livelli qualitativi sempre più elevati».
«il mastro birraio eviti di ripetere quello che è il motto degli ottusi “ho sempre fatto così (e quindi va bene) e ricordi invece quello che diceva einstein “la mente è come un paracadute, se non si apre è inutile”»
Recentemente è stato evidenziato il grande lavoro fatto dalla ricerca italiana nella produzione scientifica che riguarda la birra artigianale negli ultimi 20 anni. Secondo te, quanta strada c’è da fare ancora perché si restringa la distanza tra ricerca e produzione?
«La ricerca richiede grande impegno, grande passione, ma soprattutto tanti fondi. La ricerca, si sa, costa e non sempre i suoi frutti sono immediatamente disponibili per il mondo della produzione. Mi auguro che i fondi del PNRR – sono responsabile per l’Università di Udine di un’unità operativa – consentano di dare slancio e nuovi impulsi al mondo dei laboratori. E credo fermamente che i ricercatori abbiano come dovere primario quello di ascoltare, recepire ciò che proviene come necessità dal mondo della produzione e affiancarsi ad esso nella ricerca della soluzione. Da parte sua il mastro birraio eviti di ripetere quello che è il motto degli ottusi: “Ho sempre fatto così” (e quindi va bene) e ricordi invece quello che diceva un certo Einstein “la mente è come un paracadute, se non si apre è inutile”».
Sostenibilità e produzione birraria: quali secondo te i comparti su cui è prioritario insistere considerando il panorama nazionale?
«È noto a tutti gli operatori del settore il grande problema dei consumi energetici legati alla produzione della birra. Puntare verso energie rinnovabili e tecnologie che consentano la riduzione dei consumi di acqua è una conditio sine qua non per il settore maltario e birrario, sia esso artigianale che industriale. Iniziamo parlando dei consumi idrici: voglio ricordare che per produrre un litro di birra i consumi, quando sono estremamente razionalizzati, difficilmente scendono sotto ai 4 litri di acqua. E questo rapporto diventa ancora più grande se si parla dei piccoli produttori. Ma attenzione, anni fa sul report annuale di una grossa multinazionale, si sottolineava che i consumi idrici sono in realtà molto più grandi e possono arrivare a circa 150 litri di acqua per litro di birra. Correttamente l’autore di questo report indicava tra i consumi anche l’acqua necessaria in campo per la coltivazione dell’orzo. Consideriamo ora la trasformazione dell’orzo in malto: per maltare 1 tonnellata di orzo sono necessari non meno di 4/5 m3 di acqua. Le malterie sono industrie di trasformazione molto energivore e non soltanto relativamente ai consumi di acqua; solo per fare un esempio, si pensi alla quantità di energia necessaria per essiccare una tonnellata di orzo che a fine germinazione ha circa il 44% di umidità. Poiché al termine del processo di essiccazione l’umidità residua sarà circa il 4%, significa che è stato evaporato il 40%, cioè sono stati allontanati 400 kg di acqua per ogni tonnellata di orzo. Si può facilmente immaginare quanto calore (e quindi quanta energia) sia necessario per ottenere questo risultato. Se ci fissiamo sempre sul processo di maltazione e consideriamo l’intero ciclo di trasformazione dell’orzo in malto, questo, visto dall’esterno, da chi non sa quanto importante sia per la qualità della birra, potrebbe apparire del tutto assurdo. Anche un bambino con un po’ di spirito di osservazione potrebbe chiedere “ma prima lo bagnate, fate assorbire al seme tutta quell’acqua e dopo pochi giorni gliela togliete tutta?”. Quindi è su questi temi che la ricerca e la tecnologia dovranno in futuro, ma già anche nel presente, rimboccarsi le maniche e lavorare per l’obiettivo primario della riduzione dei consumi e della maggiore sostenibilità di queste produzioni».
Birra e istruzione: si fa abbastanza (e bene) per formare le figure professionali del futuro?
«La risposta è no, non si fa abbastanza. Certo, rispetto a 30 anni fa, le cose sono sicuramente migliorate, ma se tre decadi fa eravamo dei neonati, parlando di cultura tecnico-scientifica nel settore della birra e del malto, oggi siamo degli adolescenti. Sicuramente non adulti fatti e formati, come si trovano in Germania, Belgio, Repubblica Ceca, Gran Bretagna e tutti gli altri Paesi in cui la birra è presente da secoli se non millenni. Questa metafora sull’età si riferisce al fatto che non abbiamo un’offerta formativa strutturata a livello universitario come nei Paesi che ho elencato, se non si fa eccezione per il CERB di Perugia dove vengono formati mastri birrai con indiscutibili competenze scientifiche e tecnologiche che sono tuttavia fortemente orientate verso il mondo industriale e poco, a mio avviso, verso quello artigianale. Per quanto mi riguarda voglio ricordare che il mio corso di Tecnologia della birra è una delle discipline, tra l’altro opzionale, cioè non obbligatoria, che lo studente può inserire nel piano di studio del corso di laurea in Scienze e Tecnologie Alimentari. In questi trent’anni molti mei ex studenti che si sono laureati con me ora lavorano in birrerie, grandi o piccole e per me ovviamente motivo di grande soddisfazione. Tuttavia confesso che sarebbe stata la realizzazione di un sogno se fossi riuscito ad attivare presso il mio Ateneo un corso specifico sulla birra tale da conferire un titolo riconosciuto. Ho poi organizzato per circa 20 anni un corso tecnico gestionale per imprenditori della birra rivolto a esterni che ha avuto centinaia di iscritti provenienti da tutta Italia e anche dall’estero. Anche in questo caso molti di loro sono tuttora operativi e mastri birrai di grande esperienza».
«puntare verso energie rinnovabili e tecnologie che consentano la riduzione dei consumi di acqua è una conditio sine qua non per il settore maltario e birrario, sia esso artigianale che industriale»
Quali sono i fattori che possono mettere in pericolo il comparto birrario in generale, e quello artigianale in particolare?
«Non nascondiamoci dietro a un boccale di birra, anche se da litro. La birra è un bene voluttuario, è un consumo non essenziale, non è come il latte, o il pane o la pasta. I suoi consumi possono modificarsi drasticamente, anche in pochi anni, legati ad andamenti climatici ed economici che potrebbero, e lo hanno già fatto, penalizzare fortemente il settore. Di fronte a possibili scenari di crisi dei consumi, di sicuro a soffrirne di più sarà il settore artigianale per il semplice motivo che la birra industriale costa di meno. A tal proposito vorrei togliermi un sassolino dalla scarpa. Facendo una premessa, che è questa: su cento bevitori di birra quanti sono secondo te i veri appassionati della birra? E per appassionato intendo quello che sa cosa significano ad esempio gli acronimi IBU o IPA, quello che sa che le birre vengono classificate in base alla fermentazione, se alta o bassa e non in base al colore (bionde, rosse, scure), quello che sa che sa che luppolo e lupino sono due cose diverse. Secondo me a voler essere ottimisti il 10%. Bene, non più di questo 10% dei consumatori è disposto a spendere per una birra artigianale il doppio di quello che paga per una birra industriale. I motivi di questi maggiori costi sono assolutamente giustificati e non sono il risultato di speculazioni: una birreria industriale che produce un milione di ettolitri/anno ha dei costi unitari per bottiglia o litro ovviamente molto più bassi di quelli di un microbirrificio che non produce neanche 1000 ettolitri/anno (è così per circa l’80% dei produttori artigianali) con un rapporto produttivo quindi di 1 a 1000! Ma al restante 90% dei consumatori non gliene può fregare di meno di queste considerazioni. Vai a spiegargli tu quando mette nel carrello una birra tedesca o belga che la birra artigianale italiana costa di più ma è più buona. Certo, questo è vero ma non posso non chiedermi e chiederti: siamo sicuri che sia sempre vero?».
«Le birre a basso contenuto alcolico o senza alcol rappresentano una sfida tecnologica»
A quali domande risponde la scelta di utilizzare materie prime locali per le produzioni birrarie?
«Alla domanda che l’italiano non è un italiano vero se la sua cultura alimentare non è fortemente legata al suo territorio, alla sua regione. Questa è una esigenza quasi culturale, fornisce a tutti noi un senso di appartenenza, un simbolico legame con il luogo dove siamo nati e cresciuti. De Gaulle diceva che era impossibile governare un paese che ha più di 246 formaggi (nelle citazioni il numero cambia, ma questo non conta). Figuriamoci in Italia, dove le nostre DOP hanno superato da qualche anno quelle francesi. La cucina italiana si è ormai affermata a livello internazionale, tutti gli italiani conoscono l’enorme patrimonio che hanno a disposizione, sia per quanto riguarda le materie prime che per l’immenso bagaglio di tradizioni. È pertanto quasi naturale, ovvio per l’italiano, cercare di legare la birra al territorio, togliendole di dosso quell’aria di anonimato, quel sentore di globalizzazione che accettiamo ovviamente per la Coca Cola. Perché la Coca Cola rimane tale e quale che io la beva a Pechino o a Milano. Questo non è accettabile per la birra che è, a tutti gli effetti, un prodotto della terra, al pari del vino, riconosciuto da sempre come prodotto agricolo, status riconosciuto anche alla birra ma solo in particolari condizioni e da poco più di dieci anni».
Birre a basso contenuto alcolico o senza alcol. Qual è il tuo pensiero rispetto a questa nuova tendenza?
«Rispetto alle birre senza alcol o a basso contenuto alcolico il mio atteggiamento è di grande interesse in quanto sono prodotti importanti per il consumatore sia dal punto di vista nutrizionale che della sicurezza. Inoltre, rappresentano anche una sfida tecnologica per il mastro birraio che deve affrontare le maggiori difficoltà insite nella tecnologia di produzione di queste tipologie per riuscire ad ottenere una birra “buona”. Per le birre senz’alcol o a basso contenuto di alcol la gratificazione e la soddisfazione sensoriale del sorso di birra infatti è più difficile proprio per l’assenza dell’alcol che sappiamo essere un veicolo da un punto di vista degustativo fondamentale nella gradevolezza e accettazione del prodotto».
Agli inizi delle produzioni artigianali italiane c’era sicuramente una certa diffidenza almeno a livello europeo sulle reali capacità dei mastri birrai nazionali. Credi sia ancora così?
«No, non credo che ci sia un atteggiamento di diffidenza nei confronti dei mastri birrai nostri connazionali; francamente, se di diffidenza si deve parlare, ritengo ci possa essere di più verso gli italiani in quanto tali piuttosto che in quanto mastri birrai. 35 anni fa lavorai per un paio d’anni in un centro di ricerca in Inghilterra e già allora gli inglesi mi parlavano di quella che poi abbiamo conosciuto con il nome di Brexit. Non erano affatto contenti di stare nell’Unione Europea, ne avevano per tutti, per tedeschi, francesi, ecc., e parlando di noi italiani ricordo che mi dissero “Italians do not follow the rules”. Forse è vero in tanti ambiti ma in quello birrario no, mi sento di spezzare una lancia a favore dei nostri connazionali mastri birrai che sanno essere capaci, quando armati di diligenza, competenza e professionalità, di offrire ai nostri palati prodotti di eccellenza».
Esiste uno stile birrario che vedresti bene come indicativo di una cultura birraria italiana?
«Francamente no, inizialmente sembrava che le IGA potessero essere caratterizzanti il nostro paese da un punto di vista birrario, ma oggi non vedo più questo aspetto che a me non sembra fondamentale».
Un rimpianto (birrario)?
«Ho sempre cercato di fare quello che poteva gratificarmi e darmi soddisfazioni nell’ambito birrario, tuttavia un rimpianto effettivamente ce l’ho. A metà degli anni 80 lavorai per un breve periodo allo storico stabilimento della birreria Moretti di Udine nel laboratorio controllo qualità quando la birra, prodotta a Udine, doveva essere trasferita nel nuovo impianto di San Giorgio di Nogaro per il confezionamento. Fu un periodo molto impegnativo e i controlli analitici dovevano essere serrati. Oggi lo stabilimento di Udine non esiste più, è stata fatta tabula rasa nel vero senso della parola e al suo posto c’è la questura. Ebbene, il mio rimpianto è quello di non aver mai scattato una fotografia alla bellissima sala cottura dello stabilimento, alle belle e per me enormi cantine di maturazione sotterranee, alle bellissime vecchie vasche aperte di fermentazione che già allora, quindi 40 anni fa, non venivano più usate. Purtroppo, non ho documentato nulla, nemmeno una foto. Per me questo è un grande rimpianto birrario!».